Le ossessioni di Paul Auster avvinghiano lentamente. I suoi fantasmi sono parole e cose sempre troppo slegate o troppo legate a scarni significati, maschere, specchi, percorsi oscuri, gorghi mentali, vane strategie di ricerca di un'identità che gioca irrimediabilmente a rimpiattino, luoghi apparentemente familiari che diventano labirinti in cui smarrirsi prima di rendersi conto di aver percorso un solo passo. Palazzi, strade, vicoli, muri, finestre, porte, si chiudono in trappole mortali. L'immobilità si tramuta silenziosamente in una spirale senza uscita. Batte sempre il rintocco sordo e pesante della letteratura, l'ombra persecutoria ma anche irrinunciabile di poeti e scrittori, Milton, Melville in
Città di vetro, Walt Whitman, Henry David Thoreau in
Fantasmi. I protagonisti qui sono molte cose e nessuna, sono anche ombre di scrittori. La solitudine è così profonda da non rappresentare un ostacolo o una sofferenza, semplicemente i rapporti umani o familiari sono impossibili, crudeli o fallimentari. Non so ancora dove e attraverso quali ribaltamenti repentini di situazioni sul filo della follia si cercherà Auster ne
La stanza chiusa. Di certo il titolo anticipa eloquentemente quanto dovrò attraversare ancora di claustrofobico.
"E poi più importante di tutto: ricordare chi sono. Ricordare chi dovrei essere. Non credo che questo sia un gioco. D'altra parte, non c'è niente di chiaro. Per esempio: tu chi sei? E se pensi di saperlo, perché continui a mentire? Non ho risposta. Non posso dire altro che questo: ascoltami. Mi chiamo Paul Auster. Non è il mio vero nome."Paul Auster, Trilogia di New York, Città di vetro.