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23 gennaio 2017

L'Islanda non è abbastanza fredda


L'Islanda che emerge da questo romanzo non è un paese felice, e gli individui di queste storie non sono individui felici. Camminano incerti e barcollanti come ubriacati dalle intemperie delle loro esistenze.

La prosa poetica di Jón Kalman Stefánsson è a tratti ben costruita, toccante ma aspra come lo sono il freddo, gli odori, il pesante fango della fatica quotidiana, esistenze le cui prospettive si assottigliano sotto la lama del tempo che passa, i desideri che faticano a farsi spazio nei giorni tutti difficili al di là delle tragedie che pure accadono, pervasi da una sottile disperazione. In queste pagine storie e personaggi sono potenti e credibili.

In altre pagine però - sopratutto nella prima metà del libro e poi forse ancor più nelle ultime pagine - questo gelo si sgretola sotto un fastidioso compiacimento nell'uso delle parole, che a volte scivola nella pura e semplice sdolcinata banalità. La voce narrante qui è predicatoria e ammiccante, ingombra e  toglie spazio ai personaggi che senza di lei funzionerebbero benissimo; un esempio tra altri le pagine sull'abbraccio, pagine in cui l'autore sente l'esigenza di illustrarci la bellezza e il potere terapeutico di un abbraccio, e c'è da chiedersi chi davvero può sentire il bisogno di pagine di questo tipo, che avrebbero potuto tranquillamente essere omesse senza che la storia patisse alcun danno.

Peccato perché c'è tanto materiale in questo libro, c'è un contenuto che per lo più si adatta perfettamente alla forma, tutto sommato equilibrata nel difficile compito di descrivere i sentimenti, lo sforzo di vivere una vita piena, di sentirsi in grado di assolvere i difficili ruoli che la famiglia come istituzione impone.  Margrét emerge tra i vari personaggi come figura femminile di grande intensità e inquietanti contraddizioni.

In conclusione questo romanzo pubblicato da Iperborea non mi ha convinto completamente, ma è stata una lettura tutto sommato interessante. Non so se mi cimenterò nella lettura di Paradiso e Inferno. Qualche timore c'è di imbattersi in un elogio "insopportabile" della letteratura.





21 gennaio 2017

Il vaso

Un altro vaso sconcio
e un riflesso verde smeraldo

ci battiamo per la pronuncia del chatworld
senza comunicare altro che svendite

salta-fosso primordiale

un gran minestrone dietrologico




05 gennaio 2017

Pietà urbana

Un granello di polvere al di sotto della perfezione.
Alla finestra l'alba glaciale, la pianura deserta incendiata dal vento.
C'è calore in un angolo remoto della mente. Pensiero che batte e ribatte incalzante come un'ossessiva riaffermazione.
La sirena espande le sue grida e per un istante la vita intorno esita.
Ecco che l'uomo riprende il suo discorso privato che non può più tenere per sé, e va e va e va e va, si mette a discutere e a gesticolare, la voce si estende, impreca e imbastisce la sua arringa incespicando nel pianto, la voce lavata dalla morte vibra, scivola in un lamento balbettante, geme angoscia ubriaca, si ferma e ricomincia, poi si ripiega, si accascia sull'asfalto e si rialza continuando a gridare contro qualcuno che tutti giurano non è mai stato lì. Le parole non servono, ma la voce, oh la voce si.
C'è bisogno di una nuova intonazione del dolore, che puntuale arriva, e si lascia dietro un cimitero di bellezza.  Un motore si allontana fumando e la ragazza con i capelli appiccicati al viso viene via dall'ospedale contro la notte, cammina con le mani in tasca, più veloce, corre, corre.
Quello che si poteva creare si è bruciato sotto un liquido rossastro, sulle piastrelle di un bagno pubblico della stazione. Tutta la vita non vissuta è compressa nella fuga lurida del pavimento, sotto il dorso della mano abbandonata.
La paura si arresta e anche le ragioni per girare la chiave della porta.
Così sembra.
Ma questa città non si arrende. La ragazza esce in strada, barcolla. Non sai cosa arretra dietro la fronte di tutti i volti apparentemente impermeabili che popolano il marciapiede, sotto la pelle delle braccia appese nel metro. Vorrebbe cedere alla nausea. Resistere. Sottrarsi al vecchio becero istinto nichilista: arrogarsi il primato della solitudine incurabile. Non è una città di replicanti. Quella donna con un velo colorato. L'uomo sporco. Il ragazzo con le cuffie sopra il berretto. Non lo sa, non può. Non è l'unica consapevole. Gli altri. Tutti. L'amico cinese. La ragazza con il padre ubriaco. Il ricco imprenditore di ascensori che continua a dare le sue festicciole chic. Quei due in fila al cinema, questo signore con il giornale. Target di mercato in isolamento. Se lo ripete: lo sanno, lo sanno, lo sanno, lo sanno... Il grido si espande dentro e le allaga le vene.
Ferma a riprendere fiato come un bambino, con il silenzio per un secondo soltanto spinto giù nel fondo delle orecchie, con l'estate lontana chiusa fuori, troppi muri più in là. Il freddo nella schiena. Non finisce, rallenta. Sembra strano. Il climax stesso pare arrivare incredulo, che non sia il fiotto di piacere dell'esplosione sferragliante che ci percuote ripetutamente il midollo, che non sia quello che ci aspettavamo, che sia l'unicità del momento, che rallenti fino ad arrestarsi e poi riprenda a salire, che venga dalle grida dell'uomo salito in alto ben oltre il nostro livello di sicurezza, e che gridando e sapendo di noi, adesso ci guarda, finalmente ci vede e grida ancora più forte verso il cielo, senza pietà, grande, sudato e magnifico come una creatura irreale saettante e mostruosa.
Non è chiaro se facendolo si stia rivolgendo a noi, contro di noi. Potrebbe darsi, è quasi certo, che lo faccia anche per noi.